Nel blu dipinto da Blu: quando i “vandali” aprono il paesaggio (e lo proteggono)

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Una mattina sono stato invitato dagli alunni di una scuola media a parlare di street art. Chi stabilisce il valore di un graffito, di un’opera dipinta sul muro?” Mi hanno chiesto, di getto.

Ci ho pensato solo qualche secondo, poi ho risposto: “I ragazzi che proteggono il graffito”. Sono rimasti interdetti, e anche io. Non mi aspettavo una domanda così schietta e ho risposto d’impulso, rinunciando alla prudenza. Poi, argomentando con più calma, ho realizzato quanto fosse stata efficace quella risposta.

Perché sì, sono i ragazzi a decidere il valore di un graffito. Sono gli abitanti più giovani di una città – non i critici d’arte, né i funzionari di soprintendenza, né gli amministratori – a stabilire se un graffito, un murale, un monumento, una parete o una panchina meritano di essere protetti, cioè se fanno parte di un paesaggio che sentono loro, che condividono e apprezzano. Non condizionati da memorie e nostalgie ma, al contrario di molti adulti, consapevoli di come la città sia un organismo vivente costretto a cambiare continuamente pelle, i ragazzi sono proiettati nel futuro e decidono cosa portarci a prescindere da divieti o imposizioni culturali. Il loro è un paesaggio “aperto”, in mutazione, che si avvale di uno specifico codice per classificare i beni da proteggere, cioè gli elementi urbani da non sporcare, danneggiare o inquinare.

Nel codice “giovanile” del paesaggio urbano, i graffiti sono un elemento fondamentale. L’unico elemento di cui i ragazzi possono disporre liberamente, l’unico segno che hanno il potere di lasciare. Quando si parla di “graffiti”, però, è necessaria una premessa: il fenomeno del cosiddetto “writing”, caratterizzato dalla ossessiva ripetizione di una firma (“tag”), non coincide con la cultura che convenzionalmente definiamo “street art”.

Il writing è volutamente e ostinatamente illegale, egotico, spesso criptico e teso a sovrapporre il mondo del writer a quello degli altri, che le tags vogliono marchiare ed elidere. Per questi motivi, a mio avviso e per analogia, sono riconducibili al fenomeno del writing anche tutte le altre scritte “deturpanti” che invadono la sfera pubblica.

La street art, invece, stimolata da un intento estetico che si esercita con le tecniche più varie – dai dipinti ai poster, dalle installazioni agli stencil – è da ricondurre al tentativo di integrare e migliorare il paesaggio con forme riconoscibili e, sovente, si muove nella legalità avvalendosi di riconoscimenti istituzionali.

Nel contesto urbano, non è raro che i writers “crossino”, cioè vandalizzino, le produzioni degli “street artists”, ma lo fanno soprattutto quando devono manifestare una esplicita mancanza di rispetto, cioè quando la street art viene usata per fini considerati inaccettabili. Anche se non realizzato da un writer, il più clamoroso e noto esempio di gigantesco “crossing” è la cancellazione dei propri murales bolognesi, che rischiavano di essere staccati e “privatizzati” in un museo, ad opera del celebre street artist italiano Blu.

Lo street artist Blu, che già ha cancellato suoi murales a Berlino, raduna una piccola folla a Bologna davanti al suo dipinto più conosciuto, la 'battaglia' che adorna il centro sociale Xm24, mentre una 'squadra' di imbianchini lavora accompagnata dalla musica della Banda Roncati, Bologna, 12 marzo 2016. ANSA/ GIORGIO BENVENUTI
Bologna marzo 2016. ANSA/ GIORGIO BENVENUTI

A prescindere dai casi di “crossing”, le culture del writing e della street art hanno comunque moltissimi ed evidenti punti in comune – ad esempio il culto della vitalità urbana e del segno effimero – e molti protagonisti della street art sono stati e sono ancora “writers”. Capire in cosa consista, oggi, il rispetto e le motivazioni comuni che animano il mondo dei “graffiti” e della cultura di strada, mi sembra l’aspetto realmente qualificante, la condizione che ci permette di andare oltre i luoghi comuni e la stereotipata distinzione tra graffito buono e graffito cattivo, tra gesto vandalico e gesto artistico, per comprendere meglio la reale percezione del paesaggio da parte dei cittadini più giovani e la conseguente reazione che si attiva e concretizza, da parte dei “graffitari”, in specifiche pratiche d’intervento nel tessuto urbano.

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Grosseto, in questo percorso di comprensione della cultura di strada, rappresenta un caso emblematico. Facciamo qualche esempio. Il citato Blu, nel 2004, realizzò nella Cittadella dello Studente un murale intitolato “World wide trap”. Dopo oltre dieci anni dalla sua realizzazione, esposto alle intemperie e al naturale degrado dei materiali dell’opera – previsto e voluto dall’autore – il murale ha perso la sua freschezza e leggibilità, ha esaurito il suo percorso vitale e da qualche mese è diventato nuovamente un muro su cui scrivere. Per almeno dieci anni, però, nessuno ha osato toccare, alterare o “crossare” il murale, e questo rispetto è ancora più significativo se si considera che la celebrità di Blu è esplosa in tutto il mondo solo recentemente. Analogamente, mentre quasi tutte le sculture e i monumenti tradizionali della città, anche appena restaurati e puliti, continuano ad essere devastati da scritte e scarabocchi, per anni nessuno ha toccato (e sono ancora integri) i murales “legali” del Palazzetto dello Sport firmati nel 2004 da Hitnes, Rebus, Karma e, ancora, dallo stesso Blu. E non solo, sono integre anche le opere del progetto Urban Device firmate nel 2012 dall’olandese Zedz, dal tedesco Mr Flash, dai veneti Joys e Peeta , dai piemontesi Corn79, Fijodor e dal collettivo Truly Design, dall’emiliano Dado e, infine, dai fiorentini Etnik e Duke. Evidentemente, anche queste opere hanno meritato un rispetto che le altre opere d’arte pubblica, agli occhi dei ragazzi, sembrano non aver mai ottenuto.

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Senza formulare giudizi etici o estetici, ma partendo da questo semplice ed evidente presupposto, nel maggio del 2015 abbiamo deciso – come istituzione pubblica Cedav / Fondazione Grosseto Cultura – di fare un esperimento: affidare per concorso a uno street artist la realizzazione di un’opera sopra un muro in cemento devastato dalle scritte, in pieno centro storico della città ma in una zona marginale e poco frequentata nei pressi del Cassero senese. Dopo due anni, possiamo affermare che l’esperimento è pienamente riuscito: sull’ampio murale firmato da Zed1 (vincitore del concorso) non è comparsa alcuna traccia di violazioni o profanazioni, neanche minima, mentre nelle pareti vicine continuano a rinnovarsi e fiorire scritte, tags e figure “deturpanti”.

Il successo di questo esperimento ha confortato anche il presupposto teorico che sarebbe stato inutile limitarsi a pulire la parete dalle vecchie scritte, perché non solo un muro “ripulito” può diventare una provocazione, un affronto da “crossare”, ma in alcuni casi diventa quasi ineluttabilmente una lavagna su cui scrivere. Ad esempio, nel caso in cui il muro pulito si trovi in un territorio percepito come “abbandonato”, quindi in un paesaggio chiuso alla vita della comunità e chiuso al futuro.

Un paesaggio chiuso è sempre abbandonato, anche quando è percorso dalle persone. E’ abbandonato ai soprusi di chi vuole importi la sua morale e la sua storia, i suoi monumenti permanenti e le sue architetture. “L’architettura è inesorabile, l’abbiamo sempre con noi; ogni volta che usciamo di casa, ci si parano innanzi i fantasmi di tutte le epoche, che reclamano il loro posto non nella storia, ma nella vita” diceva il celebre architetto Marcello Piacentini. Questo pensiero provocatorio è rivolto ai centri storici, non alle periferie, e amplifica le sue ragioni quando si rinnova nella valutazione dei moderni centri storici sempre più fittizi, rifatti e ritoccati a uso e consumo dei turisti e dei clienti dei negozi in franchising. Centri storici sempre più privatizzati, cioè diventati prosecuzioni, simulacri di quegli ambienti domestici che devono essere sempre ordinati, puliti, silenziosi, sicuri, insomma “decorosi”, secondo quel pericoloso e dilagante concetto di decoro che implica il rimuovere o nascondere. Ma lo spazio pubblico non può coincidere con lo spazio privato, perché è anche lo spazio dell’altro, lo spazio dell’incontro, dello scambio e del conflitto. E’ lo spazio di esperienze diverse da quelle domestiche: se tutto diventa “interno”, che senso ha uscire?

Un paesaggio chiuso è anche quello che viene abbandonato alle logiche del profitto. Basta pagare e tutto è ammesso. Sono belli i manifesti pubblicitari o quelli di propaganda politica? Sono più belli dei graffiti? Un tempo i manifesti erano belli, come ci ricordava nel 1958 il “Formulario per un nuovo urbanesimo dell’Internazionale situazionista”: “La poesia dei manifesti è durata venti anni. Oggi ci annoiamo nella città. Bisogna faticare molto per scoprire ancora dei misteri sui cartelli della pubblica via. Non si possono fare quattro passi senza incontrare dei fantasmi, armati di tutto il prestigio delle loro leggende. Noi ci evolviamo in un paesaggio chiuso in cui i punti di riferimento ci portano inevitabilmente verso il passato”. Anche in questa citazione”, oltre l’espressione “paesaggio chiuso”, ricorre la parola “fantasmi”. Per aprire il paesaggio bisogna renderlo meno noioso, bisogna uccidere i fantasmi di un passato che non vuole passare.

Se il paesaggio è chiuso, i graffiti lo aprono.

Un tempo, lo aprivano soltanto con gesti di ribellione. “Non fate picchettaggi, vandalizzate. Non protestate, imbrattate. Quando bruttura, povero design e stupido spreco vi vengono forzati contro, diventate luddisti, gettate il vostro zoccolo nelle macchine, rappresaglia!” Incitava lo scrittore anarchico Hakim Bey, inventore delle Zone Temporaneamente Autonome. Oggi, il paesaggio è aperto dalla street art. Il muro non è più ostacolo, barriera, confine, ma diventa apertura, finestra, passaggio sul mondo dell’immaginario. Parafrasando Marshall McLuhan, “il muro è il messaggio” e, a prescindere da quello che raccontano le scritte o le figure che lo qualificano, la sua condizione – muro pulito, muro dipinto, muro taggato… – fornisce indicazioni eloquenti sulla percezione che ne abbiamo e sul rispetto che gli viene tributato. Il celebre motto “muri puliti, popoli muti” è esaustivo. Il popolo muto è quello che, nel migliore dei casi, subisce passivamente lo spettacolo, cioè le scelte che il sistema consumista e quindi l’industria, anche quella culturale, impone per lucrare sul consenso più facile e immediato. Il popolo muto ritrova la voce soltanto quando si deve indignare per la mancanza di decoro, cioè quando invoca la rimozione di ciò che disturba la sua stereotipata idea di bellezza legata al passato e ai suoi fantasmi. Ad esempio, il popolo muto ritrova la voce quando invoca la rimozione dei graffiti che “sporcano” i muri, perché il “populismo estetico” non distingue tra tags, throw up, puppets, softies, bubbles e decine di altri stili e messaggi della cultura di strada, ma vede soltanto il muro sporco, la decenza violata, la pulizia profanata e il decoro compromesso.

Gli adulti, spesso, non vedono i graffiti. Vedono solo muri “sporcati”. Molto spesso, invece, i muri “sporcati” esprimono un gusto moderno, ricercato e attento ai contenuti più intelligenti e sofisticati. Sono manifesti illustrati in cui lo stile, il linguaggio, è destinato inconsciamente a catturare lo sguardo, per poi veicolare un messaggio in grado di catturare e stimolare il pensiero. Chi vede solo muri sporchi non si ferma perché non riesce a leggerli, come fosse analfabeta: se “tutti i vedenti vedono, quando si tratta di dire cosa vedono si scopre che ognuno vede solo ciò di cui sa parlare”.

Così, nella misura in cui i monumenti a Garibaldi non sono visti dai ragazzi, i graffiti non sono visti dagli adulti. E, spesso, si perdono delle meraviglie anche concettuali. Guardiamo ad esempio le opere grossetane di Blu. Prima di tutto, sono opere “site specific”, cioè contestualizzate e quindi riferite allo specifico ambiente che le ospita. Il citato murale nella Cittadella dello Studente, World wide Trap, si rivolge quindi agli studenti e li invita a riflettere su un tema ancora oggi di grande impatto e attualità, nonostante sia stato realizzato ben tredici anni fa, cioè in un’epoca lontana della nostra frenetica evoluzione tecnologica e mediale.

 

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Su un fondo verde omogeneo, come da una palude, emergono le sagome identiche di decine di personaggi anonimi, caratterizzati dall’uniforme borghese e collegati da cavi che uniscono in rete le loro teste dall’espressione vuota, triste ed alienata. L’ultimo della fila affonda il cranio in un monitor e sulla sua sedia si legge la scritta che fornisce di senso tutta l’allegoria: WORLD WIDE TRAP. Sostituendo la parola Web (rete) con Trap (agguato, trappola), Blu denuncia i rischi connessi alla dilagante diffusione di internet che, registrando i dati degli utenti e veicolando non solo informazioni libere ma anche e soprattutto contenuti manipolati, invece di rappresentare un sistema di comunicazione libero e democratico rischia di diventare uno strumento perfetto di controllo, efficace e pervasivo. Con internet rischiamo di innescarci a vicenda nella testa dei cavi che ci chiudono la bocca e gli occhi: anche oggi, con il web 2.0, pensiamo di aver assunto una dimensione di interattività che ci emancipa dal ruolo di spettatori passivi, ma non abbiamo ancora compreso che, anche quando ci sembra di esercitare il nostro protagonismo (ad esempio nei social network), corriamo sempre il rischio di reagire in modo omologato, sollecitati da spinte che sanno bene dove dirigerci e con quale forza. La vera libertà non è nel web, sembra suggerire il murale agli studenti, ma nella strada quando è libera dai manifesti pubblicitari e dalla retorica che trasudano i suoi monumenti.

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Le reazioni indotte e omologate sono anche nello sport, nelle sue regole, nella sua disciplina, nel suo spirito di competizione. Alla faccia di De Coubertin. Tutta la grandezza di Blu si manifesta, emblematicamente, nel suo murale “legalmente” site specific, quello dipinto sul fondo blu di una parete del Palazzetto dello Sport in occasione dei Mondiali juniores di atletica leggera (2004). Altri artisti, pagati dal committente sportivo, ne avrebbero assecondato le velleità celebrative esaltando la bellezza dei corpi allenati, la freschezza della gioventù, la vitalità dello spirito agonistico e la passione del pubblico eccitato. Blu celebra invece un cadavere vestito da atleta, con le scarpette al collo, gli occhi serrati e la bocca digrignante. Sulla maglietta, al posto del nome e del numero del cestista, ancora una volta appare una iscrizione breve e geniale, il rebus “NESS1”: nessuno. Quell’atleta, portato in trionfo da centinaia di piccoli “atleti massa” – che si credono tutti numeri 1 (come riportano le loro magliette) e sono invece semplici e anonimi mattoni di una piramide che celebra la morte – è un perfetto nessuno. Un giovane nessuno nella visione più critica e anticonvenzionale dello sport che abbia mai potuto vedere e che ancora oggi non riescono a vedere tutti gli atleti che passano quotidianamente lì sotto, ottenebrati dalla loro esistenza di piccoli mattoni che sognano la gloria. Il giovane writer che, evitando gli atleti, si ritrova invece a passare sotto quel blu, il murale lo vede, lo capisce e lo protegge.

Nel blu dipinto da Blu si apre quindi un paesaggio nuovo, scollegato da internet e dallo spirito perverso delle competizioni sportive. Nel blu dipinto da Blu c’è l’esortazione ad abbandonare la massa degli individualismi egocentrici, simulacro di realtà, per incontrarci nel vero spazio di tutti, la strada, e ricomporre il senso di una comunità finalmente priva di appartenenze omologanti. Una comunità “meticcia” che abiti un territorio nuovo, patria di tutti, che bandisca la nuova forma di diseguaglianza che è l’esclusione. Una comunità capace di riscrivere la storia, perché anche la storia può essere simulacro e i ragazzi lo hanno intuito, nonostante pochissimi insegnanti spieghino loro come ogni storia sia contemporanea perché necessariamente fruita, compresa e vissuta con gli strumenti relativi e parziali della contemporaneità. Diceva Hugo Ball, fondatore del dadaista Cabaret Voltaire: “Cosa può mai comunicare una bella e armoniosa poesia se nessuno la legge, non trovandovi alcuna risonanza nel sentire del proprio tempo?”. Non c’è bisogno di Dada per capire che, per essere compreso, il passato deve prima essere trasformato in storie, e raccontare una storia significa prendere posizione, ora e adesso, sugli eventi del passato. Troppo spesso l’educazione scolastica, inibendo analisi critiche e punti di vista eterogenei, si appiattisce sulle posizioni di chi sacralizza una sola idea di passato e, banalizzandolo, ne ordina il rispetto delle antiche testimonianze storiche o artistiche. Ma, sempre più spesso, i ragazzi non si lasciano intimidire dagli ordini e dai dogmi imposti. Fuggono dal tempo. Quel busto di Garibaldi che è lì, sopra il bastione, è lì adesso e adesso ostacola il loro sguardo. Non importa se è stato realizzato nell’Ottocento, l’Ottocento è per molti di loro un concetto vuoto e astratto, come una formula matematica chiusa nei libri scolastici che è inutile conoscere e rispettare. Per molti di loro è molto più antico e sacro il blu di Blu.

Il blu di Blu, però, non è sacro per Blu. Questo è il punto. Scriveteci pure sopra ma, se lo portate in un museo, Blu lo distrugge. Anche questo gesto, però, rischia di alimentare nuovamente un mito di matrice romantica, quindi inattuale e ampiamente superato dalla cultura antagonista della strada: il mito dell’individuo geniale. Però, oggi, ci sono gli antidoti. Se c’è una frase che mi entusiasma è quella di una canzone di Giovanni Lindo Ferretti: “Non fare di me un idolo lo brucerò”. Non so se i giovani grossetani conoscano questa canzone, ma so che sui muri della città, accanto alle tags e agli “imbrattamenti”, compaiono anche frasi come “in una società che obbliga all’eccellenza fare schifo è un dovere” e centinaia di poesie anonime – su fogli in decomposizione – del MEP, Movimento per l’Emancipazione della Poesia. Amo sperare che Banksy sia un collettivo e sono confortato dal fatto che esistano persone che, soprattutto in strada, esercitano la creatività come resistenza civile (come diceva Deleuze) e non come strumento per raggiungere la fama e il successo personale. Tra loro, solo per fare un esempio, i Guerrila Spam. Amo tutti coloro che combattono la concezione teologica dell’arte, così valorizzata e celebrata dalla scuola, e che aprono le produzioni artistiche a veri processi partecipativi, favorendo il passaggio dalla cultura delle tags, delle crews e del writing a quella di una street art che si faccia espressione anonima di una collettività vitale. In questo modo i paesaggi individuali si evolvono in paesaggi collettivi, in patrimonio di una comunità che finalmente comincia a vedere gli spazi pubblici con occhi nuovi e mente attenta. In fondo, i graffiti sono gli unici strumenti in grado di fornire punti di vista diversi a tutti, anche a coloro che non li cercano. Nella Primavera araba i graffiti sono stati la voce della rivoluzione. Non tutti avevano la possibilità di collegarsi a internet, ma tutti potevano guardare i muri. Prima del 2011, questa forma d’arte era quasi sconosciuta nel mondo arabo. Poi, come quotidiani popolari, i graffiti sono fioriti ovunque, al Cairo, a Tunisi, a Bengasi e a Damasco. Chi li ha realizzati, rischiava di essere arrestato o ucciso dai cecchini, ma ha continuato.

In Italia, non abbiamo bisogno di questo tipo di resistenza civile, ma abbiamo bisogno di paesaggi aperti e menti collettive. Abbiamo bisogno di legalità. Con la legalità, si disinnesca il fascino trasgressivo della banda, della crew, della comunità clandestina e alternativa che si contrappone alla comunità narcotizzata degli zombie dipinti da Blu. Con la legalità, la crew si allarga fino a inglobare l’intera comunità cittadina, ma della crew mantiene la stessa caratteristica di gerarchia orizzontale, senza capi. Abbiamo bisogno di artisti politici che favoriscano i processi partecipativi. Nella realizzazione dell’opera, mentre per l’artista tradizionale il compromesso (con la creatività degli altri) significa diluire una visione, per l’artista politico è la vera essenza della partecipazione democratica.

A Grosseto, Zed1 è stato artista politico. Nel progetto istituzionale e legale che ho già citato, ha lavorato con la città: i cittadini hanno scelto con un sondaggio sui social network il tema iconografico (il monicelliano “la speranza è una trappola”), in assemblea pubblica hanno suggerito i singoli soggetti e simboli da rappresentare e, infine, hanno accompagnato l’esecuzione – nonostante sparuti molestatori bigotti, anche loro espressione democratica di un dissenso minoritario – con passione ed entusiasmo. Per giorni, il cantiere di Zed1 è stato affollato da writers, skaters, tatuatori, hip hop dancers e tantissimi altri ragazzi che, ancora oggi, proteggono quel muro colorato. Quel muro che, invece di disturbare la mole severa del Cassero medievale, apre il paesaggio imbalsamato di Grosseto su immaginari finalmente vivi perché decostruiti.

Immaginari che ci facciano comprendere come la vera rigenerazione urbana inizia dai ragazzi, dai vuoti in cui si incontrano le persone e non dalle cubature che le rinchiudono, dal blu del cielo che non appartiene a nessuno e nessuno lo può comprare. La rigenerazione urbana inizia dal blu dipinto da Blu.

Un pensiero su “Nel blu dipinto da Blu: quando i “vandali” aprono il paesaggio (e lo proteggono)”

  1. Eccellente lettura dei nostri giovani, del nostro tempo, del senso dell’arte. Condivido la scelta di Blu che conferma ed arrichiesce la sua arte, la sua filosofia.
    Grazie Mauro perché mi hai insegnato qualcosa che non conoscevo e per me è un arricchimento.
    Continuerò a leggerti, grazie!

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