Il parkour nella Città Visibile

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“Il giorno in cui tutto sarà piatto, saremo morti”.

Mi piace questa frase. E’ uno degli slogan dei traceurs, cioè di coloro che praticano il parkour, una delle più recenti espressioni – insieme allo skateboarding e alla street art – delle nuove pratiche popolari di cultura urbana. Il parkour è una disciplina che consiste nello spostarsi nello spazio della città superando gli ostacoli (recinzioni, muri, pareti) che si presentano su un determinato percorso, nella forma più fluida ed efficiente possibile e utilizzando un solo strumento: il proprio corpo. Ogni traceur sceglie le modalità con cui effettuare il percorso, consapevole che questa disciplina – nelle sue forme originarie – non ammette competizione e che il tracciato, la tecnica e i progressi devono essere discussi insieme agli altri traceurs. Il parkour crea quindi una comunità che vive lo spazio urbano in modo alternativo e radicale: prima di tutto, i traceurs negano l’esistenza dell’architettura come limite, confine e ostacolo. In circostanze normali un ostacolo ci impedisce di andare più lontano, ci paralizza; nel parkour, invece, tutto è percepito come supporto da utilizzare per creare movimento, dinamicità e vita. L’edilizia, con i suoi pieni, viene considerata come un elemento secondario da superare per concentrarsi sugli spazi vuoti, che devono essere abitati e percorsi da corpi in corsa.

In secondo luogo, il parkour trascende la nostra idea di cultura. Le idee degli architetti e degli urbanisti vengono ignorate per creare nuove planimetrie emozionali della città, vere e proprie “derive psicogeografiche”. In questo senso, il parkour può essere visto come una specie di guerriglia urbana, come uno strumento per criticare valori e modi della contemporanea “città – vetrina” che si basa sulle funzioni e soprattutto sui limiti e i divieti imposti dalle funzioni: le recinzioni non devono essere oltrepassate; il traffico stradale deve limitare la libera circolazione dei pedoni; i cartelloni pubblicitari devono essere rispettati anche se invadono lo spazio pubblico. Tutti questi limiti – che la cultura di strada non riconosce – sono genericamente visti come necessari, come situazioni proprie di una struttura democratica accettata senza essere messa in discussione. Raramente ci accorgiamo come la natura e la quantità dei limiti e dei divieti identifichino il tipo di socializzazione esistente. Man mano che gli ambienti diventano più “selvatici” – ad esempio nelle zone rurali – funzioni e limiti diminuiscono. Più la città è “disciplinata”, funzionalizzata ed espropriata dalla fruizione pubblica dei suoi spazi, meno è socializzata e abitata.

I traceurs, con le loro evoluzioni spesso illegali (“non saltate su quel monumento!”), ci suggeriscono che ciò che è pubblico è diverso da una somma di spazi privati, o da uno spazio privato ingigantito. Lo spazio pubblico (la strada) non è la prosecuzione del salotto di casa nostra – lindo e ordinato – ma è lo spazio dell’anonimato, delle tensioni, della molteplicità e della convivenza, dove è più naturale incontrare la differenza e, di conseguenza, la marginalità. Nella strada e nella città – al contrario di casa nostra – non possiamo e non dobbiamo scegliere chi invitare. Perché alla città hanno diritto anche gli esclusi. Tutto ciò che la società ha predisposto per lo sviluppo delle sue funzioni si presenta come un ostacolo per chi non vuole o non può integrarsi. A volte, però, gli esclusi usano gli ostacoli come opportunità, deviandone le funzioni: ad esempio, un senzatetto può usare un sotterraneo (o una zona chiusa e abbandonata) come riparo e casa. Se la società ti insegna a considerare un muro come barriera, un writer può vedere nello stesso muro un’apertura, cioè il supporto più idoneo per veicolare l’immagine di un mondo diverso. Solo esercitando un’immaginazione non omologata si possono percorrere sentieri diversi e praticare soluzioni alternative.

I traceurs esprimono una cultura diversa perché vedono la città solo come un sistema fluttuante di elementi fisici separati e isolati. Non sono interessati al sedimento storico del luogo ma alle sue qualità spaziali e relazionali. Quindi la pratica del parkour è indifferente ai monumenti, elimina la storia e rinuncia alla memoria del passato per costruire una memoria quotidiana, elaborata a partire dai propri percorsi. I percorsi del parkour diventano quindi, paradossalmente, monumenti in negativo perché – come tutta la street art – rivendicano la loro qualità temporanea, il loro essere effimeri. Sono antimonumenti, che non vengono imposti a nessuno con la retorica dei valori universali ed eterni. Il parkour, implicando sempre la ri-significazione di un mondo già costruito, diventa forma di emancipazione e liberazione.

Si può saltare su tutto, anche sulle tombe. Come nello splendido video dei Democracia, “Ser y durar” (https://vimeo.com/56541318), che allestimmo in una mostra dedicata all’arte attivista nella Chiesa dei Bigi di Grosseto nel 2013. Oggi il parkour torna in città, non virtualmente ma concretamente. Torna con un workshop aperto a tutti per la manifestazione Città Visibile, significativamente intitolata “Il diritto alla città”. Torna in una città in regressione, appiattita su luoghi comuni che identificano lo spazio sociale con uno spazio addomesticato dall’ordine, dal traffico, dalla distribuzione delle merci, dalle telecamere di sorveglianza e dai messaggi di propaganda. Invece, visibilmente, questa città è altro.

E’ ciò che crea ostacoli a un orizzonte piatto.

 

Per essere aggiornati su laboratori e workshop di cultura urbana della Città Visibile: www.clarissearte.it

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