Intervista con Duchamp

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di Mauro Papa

Qualche sera fa ho incontrato il fantasma di Marcel Duchamp. Stavo lavorando a un progetto quando, all’improvviso, mi è apparso.

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Il progetto lo riguardava. Fondazione Grosseto Cultura, per cui lavoro, mi aveva chiesto di ideare la nuova edizione della Notte della Cultura. Riflettendo, mi ero ricordato che un vecchio amico, grande appassionato di scacchi, mi aveva detto di aver incontrato – esattamente cinquanta anni fa, nel 1967 – Duchamp a Grosseto. Vagava per le vie del centro storico, elegante e sfuggente, fumando la sua pipa. Aveva in tasca La vie aigre, pubblicata nel 1964 da Julliard, Parigi, con la traduzione di Jacqueline Brunet.

Bingo! Ho pensato. Le ricorrenze infatti si accavallavano, facendo scattare la scintilla per progettare la Notte della Cultura: cento anni fa, nel 1917, Duchamp aveva realizzato l’opera che aveva cambiato per sempre la storia dell’arte: “Fontana”. Nello spirito di “Fontana”, opera orinatoio, tutte le toilettes pubbliche di Grosseto avrebbero esposto, per una notte, opere d’arte: quelle dell’edificio storico delle Clarisse, quelle del Museo Archeologico, quelle del Cassero senese, quelle del Teatro degli Industri, quelle della Chiesa dei Bigi e quelle di tutti gli esercizi commerciali che avessero voluto aderire per ospitare piccoli “Musei Temporanei in Ritirata”. Per recuperare le opere necessarie a “musealizzare” tutti i bagni pubblici avrei pubblicato un bando nazionale.

Ecco il motivo dell’apparizione del fantasma di Duchamp! Voleva premiare la mia idea e incoraggiarmi. Si sarebbe lasciato intervistare e mi avrebbe autorizzato a pubblicare l’intervista nel catalogo della manifestazione culturale.

Poi, però, c’è stato un problema.

Il Consiglio di Amministrazione di Fondazione Grosseto Cultura non ha approvato il mio progetto. Ieri sera mi hanno comunicato che “il tema e gli spazi espositivi sono incompatibili con la linea culturale di Fondazione” e che il nuovo tema doveva essere: “miti e leggende maremmane”.

Duchamp è morto per la seconda volta e io, pensando alla sua copia di La vie aigre, lo voglio comunque omaggiare pubblicando la sua intervista nel blog del Collettivo Bianciardi:

Ho paura che l’omaggio grossetano non le piaccia…

L’idea del grande personaggio deriva da una sorta di gonfiatura fondata su piccoli aneddoti.

 

Cosa le piaceva?

Far niente. Ho avuto la fortuna di non essere stato costretto a lavorare per vivere. A un certo punto capii che non dovevo zavorrare la mia vita con eccessivi pesi: lavoro, moglie, figli, casa in campagna, automobile. E fortunatamente lo capii molto presto.

 

Non era molto legato al concetto di famiglia. Era almeno legato al concetto di patria?

Lasciai la Francia soprattutto per mancanza di spirito militare. Per mancanza di patriottismo, se preferisce. Quando nel 1917 gli Stati Uniti entrarono in guerra volli trasferirmi in un paese neutrale, in Argentina.

 

Credeva in Dio?

No, assolutamente. Dio è un’invenzione dell’uomo, e aver creato l’idea di Dio è proprio una folle imbecillità.

 

A cosa credeva?

A niente! La parola “credo” per me è assurda. Non credo nemmeno in me stesso.

 

Come si guadagnava da vivere?

Non lo so. Mi ha aiutato mio padre, notaio, durante tutto il corso della sua vita. Rispetto molto il caso, ed è finito per piacermi.

 

Non chiedeva mai aiuto a nessuno?

Non mi piace chiedere. Non mi aspetto nulla e non ho bisogno di nulla. La vita è più una questione di spese che di gusto. Si tratta di sapere con quanto si vuole vivere. Io vivevo con poco.

 

Mentre Picasso giocava a fare il “macho sciupafemmine” lei incarnava il personaggio femminile di Rrose Selavy, è stato il primo artista “travestito” della storia…

Io nego la donna nel senso sociale del termine, ossia la donna-sposa, la donna-madre, e così via. Tutto ciò io l’ho evitato accuratamente fino all’età di sessantasette anni, quando ho sposato una donna che per la sua età non poteva più avere figli.

 

Il critico Robert Lebel ha affermato che lei, con le sue opere, “ha raggiunto il livello massimo dell’inestetico, dell’inutile e dell’ingiustificabile”

E’ molto piacevole come formula, me ne rallegro!

 

Chiamava le sue opere “cose”. Avevano significati simbolici?

No, assolutamente.

 

Ed estetici?

No. Bisogna guardarsi dal “look”. E’ necessario raggiungere una specie di indifferenza, al punto di non avere più alcuna emozione estetica. La scelta dei readymade è sempre stata fondata sull’indifferenza visiva. Mi difendo sempre dalla realizzazione di una forma in senso poetico.

 

Lei odiava tutto ciò che definiva “retinico”.

Il “brivido retinico” è qualcosa di assolutamente ridicolo. Anche i pittori astratti sono ottici, sono completamente immersi nella retina. Solo i surrealisti cercarono, per alcuni aspetti, di uscirne, ma senza andare fino in fondo.

 

E amava ciò che era concettuale.

Si, ma una cosa non deve essere necessariamente concettuale per piacermi. Quel che non sopporto assolutamente è ciò che non è concettuale, che è semplicemente retinico.

 

Con la componente concettuale dei suoi “readymade” ha rivoluzionato la storia dell’arte…

Quando collocai una ruota di bicicletta sullo sgabello non c’era alcuna idea di readymade, né di qualunque altra cosa, era semplicemente un gioco. Non avevo alcuna ragione specifica per farlo, né intendevo esporlo. Nel 1914 ho fatto lo Scolabottiglie. Quando andai negli Stati Uniti mia sorella e mia cognata buttarono tutto nella spazzatura e non se ne parlò più.

 

A sua sorella delegò anche la realizzazione di opere come il “Ready made infelice”…

Si, era un manuale di geometria che doveva essere appeso al balcone del loro appartamento. Il vento avrebbe consultato il libro, scelto i problemi, sfogliando le pagine, strappandole. Era divertente come idea.

 

Divertente, si, ma mi affascina di più l’idea di delegare un concetto “artistico” all’esecuzione di qualcun altro. Così esplode l’idea dell’opera come reliquia, come feticcio toccato dall’artista santo, e di conseguenza il concetto di autenticità tanto caro al mercato occidentale…

Esatto. La porta del mio studio che poteva essere contemporaneamente aperta e chiusa, fu venduta e sostituita da una copia non realizzata da me, la cui foto esposta a Londra nel 1966 è perfetta, dà esattamente la sensazione di essere una porta falsa!

 

Però ha iniziato come pittore, cioè come produttore di oggetti unici e autentici…

La rottura nella mia formazione la determinò Picabia. Aveva uno spirito sorprendente. Era un negatore. Qualunque cosa uno gli dicesse, lo contraddiceva.

 

In effetti, dopo l’incontro con Picabia, il suo percorso di artista è diventato atipico. A che età ha fatto la sua prima mostra personale?

A cinquanta anni. (Chicago, 1937). E non ci andai. Le mostre sono delle manifestazioni istrioniche, delle farse.

 

Dove si incontrano altri artisti. La sua posizione nei confronti dei cosiddetti “artisti” è stata notoriamente critica.

La cultura è una cosa rara negli artisti, che in genere sono persone limitate. Vivere con artisti, parlare con artisti mi infastidiva molto. L’ambiente dei giocatori di scacchi è molto più simpatico di quello degli artisti. Da giovane, in Francia, frequentavo un ambiente di disegnatori umoristici, non di pittori. L’ironia gioca sempre un ruolo fondamentale.

 

Però lei, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, è stato considerato un maestro proprio perché artista.

Ho giocato il mio ruolo di pagliaccio artistico. La cosa mi divertiva, e si deve pur vivere.

 

Nei libri di storia dell’arte citiamo i graffiti paleolitici ma non chiamiamo artista chi li ha eseguiti.

La parola “artista” è stata inventata in età moderna. Io preferisco la parola: artigiani.

 

Quindi le piacciono gli artisti antichi, che erano grandi artigiani…

Quando andavo in un museo non provavo più stupore, né sorpresa, né curiosità davanti a un quadro. Mai. Mi riferisco agli antichi, alle cose antiche. Ero veramente uno spretato, nel senso religioso del termine. Per me un quadro muore dopo quaranta o cinquant’anni, perché la sua freschezza svanisce. Per quanto mi riguarda la storia dell’arte è il residuo di un’epoca conservato in un museo, ma non è necessariamente ciò che di meglio quell’epoca ha prodotto.

 

E chi giudica ciò che di meglio produce un’epoca?

La parola “giudizio” è davvero spaventosa. E’ talmente aleatoria, debole. Una società può esaltare determinate opere e costruire con esse un Louvre, ma parlare di verità, di giudizio assoluto, è un’assurdità.

 

E quindi non ha un suo personale e aleatorio criterio per valutare le opere?

Per me un quadro che non fa scandalo non vale proprio la pena. E per scandalo mi riferisco a qualcosa che potrebbe chiamarsi estetica superiore.

 

Quindi ritiene che lo scandalo sia il criterio per valutare anche le opere degli autori antichi?

Le grandi opere furono sempre opere di rottura. Nella produzione di qualsiasi grande artista non ci sono che quattro o cinque cose che realmente contano. Il resto non è altro che un riempitivo. Gente come Rembrandt o Cimabue ha lavorato per quaranta anni e siamo noi, la posterità, ad aver deciso che tutto quello che ha fatto è un capolavoro. Una piccola porcheria, se l’ha dipinta Cimabue, è universalmente ammirata ma resta una piccola porcheria. Applico questa regola a tutti gli artisti.

 

E cosa è di rottura, secondo lei cosa fa scandalo?

Per esempio ciò che non arreda. Gli artisti hanno sempre nuovi mezzi per esprimersi, nuovi colori, nuove luci. Il mondo moderno si impone e costringe a rinnovarsi, è naturale e normale.

 

Quindi anche la fruizione estetica del pubblico deve essere rivoluzionata…

Precisamente. Ad esempio gli happening hanno introdotto nell’arte un elemento nuovo: la noia. E’ una bellissima idea.

 

L’idea di arte non è universale, ma sempre contingente e relativa.

L’arte non ha un’origine biologica, è una creazione umana e non tutte le invenzioni dell’uomo sono valide. Tra i primitivi la parola arte non esiste. Noi abbiamo creato l’arte per il nostro esclusivo uso: è qualcosa che appartiene alla sfera della masturbazione. Non credo nell’essenzialità dell’arte, si potrebbe creare una società che la rifiuti: non si tratta di uno scherzo, è qualcosa che va preso in seria considerazione.

 

Pensa che ci riusciranno i giovani?

No, i giovani sono molto attivi e pensano moltissimo. Ma, è seccante dirlo, non riescono a sbarazzarsi del passato.

 

A Grosseto celebriamo Fontana. La presentò sotto pseudonimo alla prima mostra della Society of Indipendent Artist, e fu rifiutata…

No, l’opera non fu rifiutata. Non si poteva rifiutare un’opera alla mostra della Society. Diciamo che la fecero sparire dietro una parete divisoria. Non ebbe alcuna critica perché non apparve neppure in catalogo. In mostra esponeva anche Picabia. Pubblicammo due numeri della rivista “The Blind Man” in cui soprattutto cercammo di giustificare la fontana orinatoio.

 

In cui compare la prima fotografia di Fontana

Si, poi la comprò Arensberg e poi la perse.

 

C’è un trucco per vivere bene?

Non lo so. Dico il mio: accumuliamo in noi un tal bagaglio di gusti, buoni o cattivi che siano, che quando guardiamo qualcosa non siamo in grado di vederla, se non è un’eco di noi stessi. Io ho sempre cercato di abbandonare il mio bagaglio.

 

PS: tutte le frasi citate nelle risposte, anche se decontestualizzate, sono autentiche e ogni singola parola è presa da “Marcel Duchamp. Ingegnere del tempo perduto. Conversazione con Pierre Cabanne”, traduzione di Angelica Tizzo, Abscondita, Milano 1966.

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