L’eresia del post artista

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Nel 2011 AI WEI WEI viene premiato come “innovatore dell’anno” dal Wall Street Journal. Dagli arresti domiciliari in Cina, Ai Wei Wei ringrazia e manda questo messaggio: Ci ho messo tutto il mio impegno per smettere i panni dell’artista e diventare un vero essere umano.

Un vero essere umano, non un finto artista. Queste parole – recuperate dal catalogo della sua prima grande mostra italiana (Firenze, Palazzo Strozzi, aperta fino al 22 gennaio) – mi hanno colpito e spinto a scrivere questo contributo, che si collega idealmente a ciò che ho pubblicato nell’articolo precedente (www.bianciardi2022.it/2017/01/03/il-nuovo-che-ci-avanza/) e che propone una personalissima riflessione sull’opera di questo sedicente “post-artista”. Una riflessione forse sbagliata e capziosa, ma comunque equidistante sia dalle celebrazioni ossequiose al mitico dissidente che dalle critiche miopi alla presunta artistar.

Cito ancora le sue parole: La creatività è il potere di rifiutare il passato, cambiare lo status quo e cercare nuovo potenziale. In poche parole, oltre all’utilizzo della propria immaginazione, la creatività è forse soprattutto il potere di agire. Ecco, Ai Wei Wei agisce, è un creativo che ha agito così tanto da essere definito dalla rivista Art Review “l’artista più influente della storia”. E chi ha influenzato l’artista più influente? E’ lo stesso Ai Wei Wei a confessarlo: Credo che Duchamp sia la figura più influente, se non l’unica, del mio cosiddetto esercizio artistico. Il cerchio si chiude. Il creativo cinese usa proprio l’aggettivo “cosiddetto” (“so-called” in inglese) a ribadire la sua estraneità, o il suo pudore, a farsi definire artista. E non a caso rende esplicito l’omaggio a Duchamp che, accusato dal critico d’arte francese Robert Lebel di aver raggiunto “il livello massimo dell’inestetico, dell’inutile e dell’ingiustificabile”, apprezzò e ringraziò, sostenendo di non essere un artista ma solo un discreto giocatore di scacchi. Molti anni più tardi anche Ai Wei Wei, ringraziando il Wall Street Journal, sostiene di non essere un artista e di essere solo un essere umano.

Il primo “post artista” è quindi proprio Duchamp che, dopo vari esercizi di pittura, all’inizio del Novecento prende un orinatoio e lo mette in una mostra d’arte. Questo gesto eretico, seguito da quello più didascalico di disegnare i baffi alla Gioconda, mette a nudo il Re e cambia per sempre la Storia dell’Arte. Il corpo del Re, però, torna presto a rivestirsi di un’aura romantica e teologica che si nutre di pretese universalistiche. La Storia, quindi, non insegna niente, soprattutto quella dell’Arte che è una storia nata nel Settecento. Il post artista Ai Wei Wei, allora, dopo un secolo si vede costretto a rinnovare l’eresia con una semplice constatazione relativista: il Re non è divino, ma un semplice uomo di razza bianca che un tempo governava solo sull’Occidente. Come una metastasi, grazie alla globalizzazione imposta dalla cultura del consumismo, il Re ha aggredito tutto il resto del mondo e lo ha conquistato. Ma Ai Wei Wei, che è un dissidente (cioè un vero essere umano), vuole ribellarsi a tutti i Re.

Per ribellarsi al Re, usa il metodo di Duchamp. Se Duchamp usava il “Ready made” degli oggetti, cioè li estraeva dall’uso quotidiano per consegnarli a una beffarda e demitizzante fruizione artistica (non estetica!), Ai Wei Wei usa il “ready made” della storia, cioè toglie gli oggetti dalla percezione storica comune, influenzata dall’assolutismo culturale imposto dall’Occidente, per consegnarli a una fruizione reale, cioè diversa, del presente. Ad esempio, nel 1994 compra un vaso della Dinastia Han (206 a.C – 24 d.C.) e ci dipinge sopra il logo della Coca Cola. Badate bene, non disegna sopra una riproduzione, come ha fatto Duchamp con la Gioconda, ma su un’urna autentica! Nel 2009 crea una composizione (Dust to dust) di contenitori di vetro dentro i quali mette polvere di vasi neolitici, sbriciolati per l’occasione. Nel 2012, di fronte a curatori di musei inorriditi (ma anche intellettualmente affascinati “dall’estro dell’Artista”) lascia cadere a terra, rompendolo, un altro vaso autentico della Dinastia Han. E non solo distrugge e “vandalizza” opere antiche che l’Occidente ha abituato a pensare come sacre e intoccabili, ma comincia a manipolarle con materiali e tecniche moderne per attribuirgli un nuovo senso estetico. Nel 2005 fa costruire delle bare monumentali con il legno di templi antichi distrutti. L’anno successivo costruisce un grande cubo, rinforzato all’esterno con grandi e moderne parallele in ferro, usando il legno proveniente da altri templi demoliti.

Molti ravvisano in queste operazioni un significato emblematico: Ai Wei Wei costringe culture, identità e soprattutto tempi storici diversi ad accostarsi, affrontarsi, integrarsi per comporre un insieme significativo che sia più grande della somma delle sue parti. Ma chi lo considera, per questo gesto sprezzante e provocatorio da genio rivelatore, un artista, non capisce che i suoi non vogliono essere gesti universali, ma sollecitazioni intellettuali da destinare a un pubblico particolare, quello che crea il culto del passato per monetizzarlo: il pubblico dell’arte occidentale. La cultura orientale, prima dell’occidentalizzazione, ha sempre avuto una concezione ciclica del tempo e non ha mai capito il senso del restauro materiale degli oggetti, seppur “belli”, ma solo quello dei rifacimenti periodici o delle distruzioni. Tutte le dinastie reali cinesi distruggevano le tracce di quelle precedenti e anche la Rivoluzione Culturale imposta da Mao Zedong ha attuato la stessa politica di obliterazione. Chi giudica i gesti di Ai Wei Wei come delle denunce di queste inaccettabili distruzioni, non vuole capire – come analogamente non capisce che il vero portato della pop art di Warhol non è denunciare il capitalismo ma celebrarlo – che il creativo cinese non ha mai professato un grande amore per l’arte fine a se stessa, né per la sua storia, né per la civiltà, né per la cultura.

Come ho già detto, Ai Wei Wei ha sempre rivelato una forte avversione per tutti i Re, cioè per l’egemonia culturale in ogni forma, come dimostra una delle sue opere più celebri (Study of perspective, 1995-2011), serie fotografica in cui il suo dito medio viene immortalato nell’atto di profanare tutti i monumenti mondiali della storia e della cultura. Compreso lui stesso. Un’opera che non ha niente di bello, affascinante, estetico. E’ puro sberleffo concettuale, come potrebbe fare chiunque. Perché Ai Wei Wei è chiunque. Un semplice essere umano. Usa la categoria degli oggetti d’arte per farsi capire dagli intellettuali occidentali, di origine o di adozione, e usa parole, gesti e immagini comuni per farsi capire da tutti gli altri. Perché si rivolge all’umanità intera, non solo al mondo dell’arte.

In realtà, all’inizio del suo percorso creativo Ai Wei Wei, come lui stesso ammette, “mette i panni dell’artista”. Dopo essere espatriato negli Stati Uniti negli anni Ottanta, e aver iniziato il suo percorso d’artista “all’occidentale”, Ai Wei Wei torna in Cina negli anni Novanta. Trova la stessa corruzione di stato e lo stesso mancato rispetto dei diritti umani che aveva lasciato, ma nota anche che qualcosa sta velocemente cambiando, che sta maturando una cultura nuova, alimentata anche dai circuiti underground che si nascondono al regime. A partire dagli anni zero, l’arte occidentale trionfa anche in Cina, e il dissidente cinese la usa contro sé stessa, come uno strumento rivolto al pubblico globalizzato dell’arte. Perché, è bene sottolinearlo, le sue opere “vandalizzanti” non sono rivolte alla maggior parte dei cinesi che, abitando un territorio in cui ancora oggi l’arte contemporanea è una nicchia molto ristretta, non sono in grado di comprendere quel tipo di provocazione. Ai cinesi e a tutti coloro che non si interessano d’arte, invece, Ai Wei Wei rivolge il messaggio che lo interessa di più, quello dell’attivista per i diritti umani.

A partire dal 2005 comincia a “smettere i panni d’artista” e inaugura un frequentatissimo blog, consultato anche da chi non è interessato all’arte, in cui pubblica parole, testi e immagini di denuncia contro le prevaricazioni del regime cinese. Nel 2008, di fronte a un ostinato silenzio delle autorità locali, usa il blog per divulgare i nomi di tutti i bambini (oltre 5000) morti nel terremoto del Sichuan. La polizia chiude il blog e Ai Wei Wei sposta la sua comunicazione su Twitter, dove raccoglie milioni di followers con i suoi ripetuti messaggi – la mia attività più bella e interessante, dice – arrivando addirittura a pubblicarne 60.000 in un anno. Nel 2011 viene arrestato e incarcerato per due mesi, e dal 2011 al 2015 viene messo agli arresti domiciliari. E’ bene evidenziarlo: Ai Wei Wei non viene arrestato per la sua arte, ma per la grande influenza che sta acquisendo tramite internet. Viene arrestato per la sua attività di post artista.

Oggi Ai Wei Wei è libero, dalla costrizione degli arresti e dalla costrizione delle definizioni d’arte. E’ libero di farsi insultare da chi scambia l’urgenza di comunicare con “marketing per vendere”. E’ libero di fare l’attivista non artista e allo stesso tempo di fare un’arte che, seguendo l’esempio di Duchamp, rinnega i suoi principi fondanti. Un’arte eretica e collettiva. Per Documenta 12, nel 2007, Ai Wei Wei concepisce l’opera Fairytale, che si ispira al racconto arabo delle mille e una notte. Raccoglie le candidature di mille e uno cittadini cinesi provenienti da comunità povere e remote, e li porta tutti a Kassel con un viaggio che non avrebbero mai potuto permettersi. Nel racconto arabo tutte le storie sono raccontate dalla sola Sherazad, mentre nel documentario Fairytale sono mille e uno cittadini cinesi a raccontare la storia favolosa di cui sono protagonisti. Come sono protagonisti tutti coloro che, nel sito web Moon creato da Ai Wei Wei con l’artista Olafur Eliasson, possono pubblicare ciò che vogliono con un’unica limitazione: il divieto di esibire simboli fascisti, omofobi e xenofobi. Il web diventa un nuovo spazio pubblico. Come disse Vito Acconci: Lo spazio pubblico di per sé non esiste, è un’attività: siamo noi a rendere le cose pubbliche.

Il vero essere umano rende tutti artisti. L’aveva capito Joseph Beuys e lo ribadisce Ai Wei Wei. Nel 2010, il post artista cinese riempe la Turbin Hall della Tate Modern con 100 milioni di semi di porcellana realizzati e decorati a mano. L’opera, dal semplice titolo Sunflower Seeds, è realizzata coinvolgendo la popolazione di un intero villaggio cinese. Tutti gli artigiani – ma anche chi non lo è e così lo diventa – vengono messi al lavoro e ben retribuiti per produrre esemplari unici, perché ogni seme è diverso dagli altri. Il risultato è un tappeto di mille metri quadrati su cui camminare, una spiaggia composta da milioni di opere d’arte. Se tutti possiamo essere artisti, a che serve definirci come tali? Lo aveva già dimostrato un altro grande eretico post artista, Piero Manzoni, quando aveva costruito la sua bellissima Base del mondo nel 1961, un piedistallo capovolto verso il suolo che rende ancora oggi tutto il globo, con le persone che lo abitano, un’opera d’arte: se tutto è arte, niente lo è.

PS: Chi avrà avuto la pazienza di leggere questo lungo intervento, avrà notato che non ci sono immagini di corredo al testo. Questa mancanza è voluta. Se una semplice descrizione delle opere riesce a evocarne il senso, la fragranza del dato concettuale esaurisce di per sé la funzione estetica, consegnando forme e materia a una dimensione post artistica. A che serve vedere l’orinatoio di Duchamp? Basta pensarlo. Per chi invece fosse incuriosito, basta digitare Ai Wei Wei nel settore Immagini di Google. https://www.google.it/search?q=ai+wei+wei+opere&client=firefox-b&biw=1152&bih=711&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=0ahUKEwj8ofOT-bTRAhWJD8AKHVOmCcIQ_AUIBigB#tbm=isch&q=ai+wei+wei+opere+vasi

3 pensieri su “L’eresia del post artista”

  1. Ciao Mauro… hai, a mio parere, reso omaggio a Duchamp soprattutto…che ha “liberato tutti” quegli artisti abbarbicati nella tradizionale maniera di produrre opere anche galvanizzati dal fattore commercio di allora naturalmente…e d’ogni tempo…Michelangelo ne ha fatto conti&spese pure lui…poi su-su i fantastici discepoli: Beuys, Klein, Manzoni e molti altri hanno finalmente proseguito con la “benedizione” di Marcel … Grazie per averlo fatto, da anni cerco di renderne il giusto merito a Duchamp…e non ci sono solo le opere storicizzate di lui da te citate. Quelle meno “visibili” che ho visto 2 anni fa al Museo d’arte moderna e contemporanea di Philadelphia son altrettanto strepitose…che il nostro Melotti penso ha ben studiato…Fantastiche opere che stanno in una scatola di scarpe…piccole ma potenti. Bene, hai fatto contenti anche i tre soci di San Gimignano del tuo contributo…comunque se ne parli…l’importante è parlarne& sparlarne…è roba da gente famosa..ora Lui&loro lo sono alla grande!!. Lo scopo, l’architetto-artista cinese l’ha raggiunto, come Cattelan e Hirst e chi come loro hanno saputo/voluto stupire-sbalordire-indignare con le loro creature e sono assurti all’olimpo dei magnifici nomi di aste milionarie (benevolmente presi sott’ala dal calcolo mirato e proficuo di lobby della finanza planetaria, che a tavolino hanno costruito la temporanea notorietà , quanto la loro debacle …alcuni di loro ora scomparsi dalle vetrine internazionali). Non m’ha fatto voglia d’andare a Firenze a vedere i gommoni appesi (scusami “installati”….hahahah) a Palazzo Strozzi e altro di lui…appunto Google ti rende servizio alla grande….e a me basta e avanza…ti allego qui sotto un post ( c’è ne sono a decine) di questo signore a “proposito di Ai Weiwei e artisti di quella fatta. Ciao e grazie !
    Luca Rossi Lab • 4 mesi fa
    Soprattutto se pensiamo che tutto questo ha sostanzialmente ricadute commerciali. Ma chi è Ai Weiwei?
    Un’artista mediocre sul quale si è costruita una storia che piace tanto al mondo occidentale, e soprattutto al mercato dell’arte occidentale. Se Weiwei fosse veramente un artista dissidente sarebbe in prigione in Cina e nessuno ne parlerebbe. E poi , dove sta la critica al governo cinese nelle sue opere? In vasi colorati? Sgabelli? Biciclette assemblate? Nessuno sa di preciso cosa sia successo tra Weiwei e il governo cinese; abbiamo visto delle ferite, sembra sia stato imprigionato e poi rilasciato. Fin qui niente di eccezionale rispetto a quello che capita a tanta gente nel mondo. Eccezionali sono invece i prezzi delle sue opere, vendute dalla Galleria Continua e altre gallerie internazionali a peso d’oro, si parla di milioni di dollari. Oggi le opere d’arte contemporanea sono diventate come fondi di investimento che a differenza di quelli tradizionali, si possono esibire, e far vedere il sabato sera agli amici. Ai Weiwei non ha fatto nulla politicamente, se non sfruttare le disgrazie e le ingiustizie del mondo per aumentare la sua fama e il prezzo delle sue opere. Mostrando i Gommoni ci indica il problema dei profughi? Come se non sapessimo che esiste il problema, come se il problema non passasse ogni giorno al telegiornale. Cosa può fare l’artista? Molto, ma Weiwei non fa niente. Se fosse nato a Viterbo, e non fosse stato “esotico” per il mondo occidentale non avrebbe avuto la visibilità di cui lui e i suoi galleristi possono godere; si tratta di una nuova forma di colonialismo, finalizzata a creare gingilli costosi per ricchi da mostrare in qualche appartamento tra New York e Londra. Ed ecco i resti di un terremoto in Cina in una mostra a Londra, ed ecco i gommoni e i giubbotti di salvataggio dei profughi. Vorrei vedere uno di quei gommoni in un salotto di Park Avenue. Presto succederà dopo la mostra a Firenze. Ma Weiwei ha aiutato concretamente i profughi? Nessun aiuto concreto se non il 10% degli incassi di una sua mostra in Grecia (forse poche centinaia di euro), quando le sue opere vengono vendute per milioni di dollari. Una presa in giro colossale, una speculazione di tipo commerciale. Questo attira la curiosità dei turisti ma soprattutto quella dei collezionisti occidentali o di quelli orientali che volgiono fare gli occidentali. La storia di Weiwei dissidente politico è ancora meno che un film di fantasia, perché non esiste neanche un film, ma tante notizie parziali, frammentarie, che contribuiscono a raccontare una favola che piace tanto ai portafogli e alla coscienze dell’occidente: ecco la vittima di una dittatura che ci indica i problemi che noi stessi abbiamo contribuito a creare.
    Ma cosa succede se analizziamo il lavoro artistico di Ai Weiwei? Scopriamo che il suo lavoro scopiazza e riprende semplicemente artisti storici come Arman e Duchamp. Ossia prende oggetti di uso comune (biciclette, sgabelli, gommoni, giubbotti di salvataggio ecc) e li ripropone in musei e gallerie, tramite banali accumuli. Niente di innovativo, niente di provocatorio, ma l’esatto contrario di quello che dovrebbe rappresentare l’arte e l’arte contemporanea. Abbiamo bisogno di uno sciacallo per vedere che sotto c’è un cadavere?

  2. Mauro condivido il concetto di “non arte” come emozione , seguo Ai Wei Wei da alcuni anni e sono contento che ne parli ai lettori grossetani e non , consiglio di vedere le opere di questo artista oltre che a Firenze alla galleria Continua di San Gimignano che spesso lo ospita.

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